Roma, il mito del privato e le mani del Capitale
di Simone Sauza
Su Mafia Capitale si è detto e scritto relativamente tanto. Eppure sembra non averci insegnato nulla. Del resto, l’errore più grande che si possa fare è relegarlo in qualche anfratto della memoria collettiva come uno dei tanti casi di corruzione, tanto per alimentare il misero qualunquismo del “so’ tutti ladri!”. Il procedere caso per caso, scandalo per scandalo, empiricamente, non solo è poco utile, ma è letteralmente dannoso. Come quando si pensa che Mafia Capitale sia un problema di Roma; o quando si tratta la Mafia come una specie di villain dei fumetti. È la visione sistematica di queste vicende (Mafia capitale come il Mose o la Tav) a mancare.
Certo, si dirà, spesso si sente dire che è “il sistema” ad essere marcio; ma fin quando non si inquadrerà cosa significhi questo “sistema” si continuerà a fare chiacchiera. La chiacchiera mediatica è quella che ti dice che Carminati è di destra, Alemanno è di destra, Buzzi è di sinistra e così via; allora, a seconda dello schieramento, si dirà che Mafia Capitale mostra i sintomi di un nascente potere nero neofascista colluso con la politica; oppure che Mafia Capitale fa vedere come i compagni non sbagliano, ma hanno le mani bene in pasta anche loro; oppure che il buonismo progressista favorisce la gestione malavitosa dell’immigrazioni. Ecco, queste sono narrazioni tossiche. Quelle narrazioni con cui i media imbastiscono l’apologia del capitalismo italiano: secondo questa divulgazione, ci sarebbe un’essenza del capitalismo buona, e alcuni elementi cattivi, cani sciolti appartenenti intercambiabilmente alla destra o alla sinistra, che ne guasterebbero la missione civilizzatrice. Una vera e propria reificazione della storia, in cui il paradigma di fondo rimane inquestionabile, posto come struttura eterna di un’ipotetica linea progressiva del tempo, la quale, tutt’alpiù, presenta qualche foglia secca da sfrondare.
Eppure, Carminati non è di destra, così come non lo è Alemanno, e Buzzi non è di sinistra. Essi sono meramente i ciclici agenti di un sistema affaristico incolore, che ha le sue radici all’interno di ben precise strutture economiche. Incasellare questo tipo di eventi all’interno di categorie politiche che nulla hanno a che fare con questi casi, così come i media hanno fatto, ha solamente due effetti: 1) distrarre dai meccanismi di un sistema economico trasversale, quello capitalistico, che presenta intrinsecamente degli aspetti che favoriscono il proliferare di attività criminali e criminogene; 2) occultare la rete capillare, radicata nella società civile, su cui poggiano queste figure. Andando con ordine: nel momento in cui l’economia capitalista si è assestata su i tre pilastri dell’assenza di regole, della logica del profitto e della mondializzazione del capitale, sono cresciute esponenzialmente le possibilità di attività criminali.
In altre parole, la finanziarizzazione come stadio finale del capitalismo, ha sostanzialmente agevolato e prodotto quell’intreccio tra politica, mafie e società civile. Nel momento in cui un sistema produce un’elevata quantità di capitale volatile che raramente viene immesso nell’economia reale (imprese), esso finisce in progetti dall’investimento redditizio a breve termine, ma dalla scadenza infinita, su cui possono proliferare attività speculative. Qui subentra il secondo effetto della narrazione tossica: vale a dire, quello di incentrare divisoriamente il dibattito mediatico sulle figure politiche delle vicende, tralasciando, ad esempio, il sottobosco di costruttori evidentemente implicati nei casi italiani di corruzione degli ultimi anni (ad oggi, nessun indagato nella vicenda di Mafia Capitale).
Ciononostante, il mantra della politica rimane quello della demonizzazione dell’amministrazione pubblica, in favore di una supposta missione salvifica degli operatori privati. Infatti, in quest’apologia indiretta del Capitale, tali vicende vengono strumentalizzate per puntare il dito contro il pubblico, in funzione di quella mitizzazione del privato che tanto piace trasversalmente. Eppure bisogna intendersi di che “pubblico” stiamo parlando. Negli ultimi anni, ad esempio, si è venuta a creare una vera e propria economia dei servizi sociali (gestione immigrazione, pulizia di strade, immondizia, emergenza alloggiativa) che funziona tramite delle logiche solo in apparenza stataliste. Questo perché, nonostante, nel caso di questi servizi, il comune continui a sborsare soldi pubblici, la gestione di essi è appaltata ai privati. Il privato che opera per profitto ha tutto l’interesse a mantenere lo stato di emergenza, peggiorando il servizio e lucrando su vicende di interesse sociale che, in quanto aventi effetti sulla collettività, dovrebbero essere tenute fuori dalle mani del capitale privato.
Nel momento in cui il problema di fondo diventano non tanto le pratiche illegali – le quali rimangono, ovviamente, da perseguire e colpire con durezza – bensì quelle legali, allora significa che è necessario adottare una lettura anti-sistemica. Fred Hampton, leader delle Black Panther dell’Illinois, in un celebre discorso, disse che era sbagliato combattere un capitalismo dei bianchi con il capitalismo dei neri, evocando la necessità della prospettiva socialista. Parafrasando, non ha nessun senso contrapporre un capitalismo rosso ad un capitalismo nero. I problemi fondamentali della società capitalistica derivano dalle strutture del sistema socio-economico di fondo, e non da uno scontro ideologico sul come gestire e/o quanto temperare lo stesso.
Fonte: L’Intellettuale Dissidente
Nella foto in alto: il Campidoglio
Nella foto al centro: il sindaco Marino con Buzzi (coop.79)