Gaza: Paesaggio con Rovine

di Massimiliano Brancato

“Il giardino «all’inglese» rifiuta (a differenza di quello all’”italiana”) la regolarità geometrica e dispone ogni cosa in un’apparente casualità. Divengono elementi caratteristici di questo tipo di giardino: i vialetti tortuosi, i dislivelli, le pendenze, la disposizione irregolare degli arbusti. Ed un altro elemento caratteristico del giardino «all’inglese» è la falsa rovina…Il sentimento della rovina è tipico della poetica romantica. Le rovine ispirano la sensazione del disfacimento delle cose prodotte dall’uomo, dando allo spettatore la commozione del tempo che passa. Le testimonianze delle civiltà passate, pur se vengono aggredite dalla corrosione del tempo, rimangono comunque presenti in queste rovine del passato. E la rovina, per lo spirito romantico, è più emozionante e piacevole di un edificio, o di un manufatto, intero. Ovviamente, nell’arte del giardinaggio, pur in mancanza di rovine autentiche, ci si accontentava di false rovine. Ossia di copie di edifici o statue del passato riprodotte allo stato cadente.”
Da Studenti.it “Le nuove categorie estetiche: il pittoresco e il sublime” (https://www.studenti.it/le-nuove-categorie-estetiche-il-pittoresco-e-il-sublime.html#:~:text=Il%20sentimento%20della%20rovina%20%C3%A8,commozione%20del%20tempo%20che%20passa.)
«Rovine. Fanno sognare e donano poesia a un paesaggio». Così scriveva, nel 1850, lo scrittore francese Gustave Flaubert.
E ancora Stefano Zecchi: «La vita possiede un’inestimabile pulizia morale: tutto finisce. Talvolta ha la generosità di concedere ancora qualcosa prima che tutto venga spazzato via: le rovine. Resti del passato che testimoniano il cammino della storia» (S. Zecchi – citato in G. Nifosi’- Le rovine, un fascino sublime e dolente da Friedrich all’arte contemporanea – in “Il Novecento: dagli anni settanta ad oggi” – 1° maggio 2020)
L’estetica delle rovine è un elemento pervasivo del settecento. Il primo romanticismo, che si va’ opponendo agli esordi della “modernità illuminista, positivista, come la conosciamo noi oggi, elabora un vero e proprio “culto” della rovina. Culto che si ritrova un po’ ovunque nella produzione estetica, almeno sino agli anni 20/30 dell’ottocento, ma che, ovviamente persisterà, in maniera residuale, ancora sino ai giorni nostri.

La rovina, nel settecento, è ancora disegnata come oggetto di reale abbandono, non già come razionalizzata testimonianza di un passato storico da catalogare e classificare grazie a quelle scienze archeologiche che si diffonderanno a partire dalla fine dell’ottocento e che andranno a “reinventare” in misura maggiore o minore antiche civiltà, culture scomparse, magari nell’ottica evoluzionistica dominante o dettando qua’ e là certi estetismi neoclassici, neo minoici, neo egizi etc.
Nel settecento la rovina è ancora “autenticamente” rovina, solamente un manufatto in uno spazio abbandonato, remoto, dimenticato. Spazio (geografico) che i proto turisti dei “Grand Tour” andavano ad ammirare per trarne un godimento estetico ed una sana riflessione filosofica sulla caducità (o “impermanenza” se vogliamo) delle grandezze e fortune terrene. Non c’è, ancora, né il proposito ricostruttivo né quello “restaurativo”, questi propositi seguiranno nei due secoli successivi.
È indicativa di questa sensibilità la sanguigna di Johann Heinrich Füssli che ritrae l’artista commosso in lacrime, sovrastato dai due giganteschi manufatti marmorei romani appartenenti ad un acrolito dell’imperatore Costantino (1778-80).

Füssli piange la grandezza dell’antico nella sua impossibile “restaurazione”. Il mondo suo contemporaneo è altrettanto capace in termini costruttivi, ma non possiede ne potrà comunque possedere la medesima grandezza sublime.
«Le idee che le rovine suscitano in me sono grandiose», scrisse il filosofo e critico d’arte francese Denis Diderot nel 1767. «Tutto passa, tutto perisce. Soltanto il mondo resiste. Soltanto il tempo continua a durare. Io cammino tra due eternità. Ovunque io guardi, gli oggetti che mi circondano, mi annunciano la fine, e mi mettono in guardia rispetto a ciò che mi attende” (citato in Nifosi’).
Anche nell’enciclopedista, quindi, c’è la consapevolezza del transeunte inevitabile. Questa consapevolezza sparirà presto quasi del tutto dal panorama estetico e culturale dei due secoli successivi.


Rovine dell’antica Palmira (Siria)

Ad essa si sostituirà, particolarmente a partire dalla seconda metà del novecento, la protervia “eternità” della “fine della storia”. I questo contesto, quindi, la rovina perde del tutto il suo significato “edificante” (paradossalmente) ma diventa un mero ingombro spaziale che, necessariamente, deve essere seguito da due sole possibili azioni: la demolizione, con conseguente ricostruzione abominevole, sintonizzata con le esigenze impellenti del “moderno”, del “funzionale”, dell’”utile” e, oggi anche, dell’”ecologico”; oppure il “restauro”, la conservazione selettiva, museificata, algidamente subordinata allo “studio” dell’antico, ma non certo più al “godimento” estetico dello stesso, che può scaturire solo da un manufatto “vivo” e non protetto da teche di plexiglas.

Le rovine sono un “disturbo” della modernità. E vanno rimosse quanto prima. Le rovine dei due ultimi conflitti mondiali, ad esempio, in buona parte generate da quella geniale invenzione “alleata” del Maresciallo dell’Aria Arthur “Bomber” Harris nel 1941 che va sotto il nome gentile di “bombardamento a tappeto”, quelle di Dresda e di Cassino tanto per citare le più note, non potevano certo essere ‘conservate” ad memoriam. Al contrario, urgeva il rifacimento fasullo e la “ricostruzione” modernista. La rovina diventa un testimone di un passato doloroso da cancellare prontamente, certamente non un simbolo che possa farci mettere in dubbio la presunta “eternità’” della nostra società e dei nostri “blasonati” valori democratici, progressisti, liberali etc.
C’è, a mia conoscenza, una sola eccezione a questa regola. La conservazione dell’iconico rudere dell’edificio per la promozione industriale della prefettura di Hiroshima, progettato dall’architetto ceco Jan Letzl e molto apprezzata al momento della sua costruzione nel 1915 per il suo caratteristico design in stile europeo, che oggi si erge sublime e spettrale nel Parco Commemorativo della Pace, a perenne memoria (sic!).
In fin dei conti, le stesse “Twin Towers” non hanno ottenuto lo “status” di rudere commemorativo. Anche in quel caso era meglio “cancellare” e sostituire i detriti scomodi (anche da un punto di vista investigativo) con un bel buco che evoca una sorta di “cloaca”, un “umbilicus mundi” che tutto sembra inghiottire attorno a sé. Una soluzione architettonica che ha senz’altro una sua forza simbolica, comunque.
Ora assito, in diretta streaming, da Gaza City, ad un formidabile processo di “costruzione di rovine”. Un lavoro certosino, degno di una ingegneria militare meticolosamente scientifica, una sorta di effetto “bomba atomica” senza una bomba atomica che, in fin dei conti, per ottenere lo stesso risultato, richiede solo un po’ più di tempo, ma, diciamo, impressiona (forse) un po’ di meno, come se l’orrore fosse una questione di giorni, ore o mesi piuttosto che di intenti.
Lo streaming mi mostra, impietoso, distante e asettico, un eccezionale teatro di neo-rovine. Calcestruzzi, travi in cemento spezzate, pietrame, suppellettili, interni un tempo remoto abitati da qualcuno, con tappezzerie straccione visibili qua’ e là.
Una rovina che vedo “costruire/decostruire” di giorno in giorno, con grande pazienza, come quella che richiede un giardino “Zen”.
E mi chiedo, impudentemente, quale sarà il destino di queste rovine? Quale sarà il significato autentico di queste rovine? Ci sarà un futuro per le rovine che questa modernità sconvolgente, atroce, asetticamente assassina sta’ seminando per il mondo? Sono esse le rovine stesse dell’occidente collettivo? O sono semplicemente epifenomeni di quel risucchio in quel maledetto “buco” senza fondo che a New York sembra voler inghiottire ogni forma di umanità dalla faccia di questo miserabile pianeta?
Non ho risposte. Ma posso piangere ai piedi di queste rovine apocalittiche, come il Füssli, o posso riflettere, come Diderot, su come queste rovine siano il liminare tra “due eternità” di cui una sta’ miseramente e disastrosamente finendo mentre l’altra è ancora informe. O che siano soltanto l’annuncio della fine …. un “cupio dissolvi”… l’ultimo grande spettacolo di “son et lumière” di una civiltà abominevole.

Rovine di Persepoli

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