Finanzcapitalismo: schiavi del debito
“Di tutti i modi per organizzare l’attività bancaria, il peggiore è quello che abbiamo oggi” (Sir Mervyn King, ex governatore Banca d’Inghilterra)
Da sempre strumento di supporto dell’economia capitalistica, con l’avvento del neoliberismo la finanza si è tramutata da servitore a padrone dell’economia mondiale, fagocitandola e riproducendosi a ritmi vertiginosi.
di Ilaria Bifarini *
Una delle trasformazioni più inumane del sistema capitalistico industriale, fondato originariamente sull’industria manifatturiera e più in generale di produzione, è quella in capitalismo finanziario, in cui il potere è concentrato in pochi grandi istituti di credito. Le banche hanno cessato il loro ruolo di supporto e di credito allo sviluppo, preferendo investire in prodotti finanziari dai quali viene generato altro capitale, in un sistema autoreferenziale in cui i profitti nascono dalla speculazione, senza passare attraverso il lavoro e la produzione.
In modo graduale, ma anche repentino, il sistema capitalistico ha spostato l’asse dall’economia reale a quella finanziaria e, ancora peggio, alla speculazione che ne deriva, tanto da essere stato ribattezzato “finanzcapitalismo” o “capitalismo ultrafinanziario”.
Orientato alla massimizzazione del profitto ricavato dal denaro stesso, in esso la ricchezza non passa attraverso la produzione di beni o servizi, né è previsto un piano di redistribuzione tra lavoratori e consumatori, ma solo l’accentramento nelle mani di pochi, pochissimi. Da sempre strumento di supporto dell’economia capitalistica, con l’avvento del neoliberismo la finanza si è tramutata da servitore a padrone dell’economia mondiale, fagocitandola e riproducendosi a ritmi vertiginosi.
A partire dal 1980 l’ammontare degli attivi generati dal sistema finanziario ha superato il valore del Pil dell’intero pianeta. Da allora la corsa della finanza al profitto è diventata così veloce da quintuplicare per massa di attivo l’economia reale nel giro di un trentennio.
Sotto la presidenza Bill Clinton, sono state introdotte due pietre miliari per completare la deregolamentazione del sistema finanziario neoliberista. Con l’abolizione del Glass-SteagallAct – introdotto da Roosevelt l’anno successivo alla crisi del ’29 – è stata eliminata la separazione tra banche d’affari e d’investimenti, che così hanno riconquistato concentrazioni di potere economico. In contemporanea, l’organizzazione mondiale per il commercio (WTO) ha dato il via libera alla compravendita di prodotti fuori Borsa con la cancellazione delle precedenti norme, considerate restrittive, sul controllo dei derivati.
Ogni giorno nascono nuove tipologie di derivati sempre più sofisticati e complessi, che possono essere scambiati “over the counter”, ossia fuori dalle Borse. Essendo titoli “transitori” non rispondono all’obbligo di essere registrati nel bilancio bancario e sfuggono alle normative del settore. Sfruttando le falle del sistema, da esso stesso generate, i grandi gruppi finanziari hanno creato una miriade di società indipendenti cui trasferiscono fuori bilancio grossi capitali, che in tal modo divengono invisibili. Tali strumenti hanno le stesse caratteristiche della moneta: sono rivendibili più volte, facilmente monetizzabili e scambiabili senza detenere il possesso del loro sottostante. Così i derivati, messi in circolazione in enormi quantitativi dalle banche, sono divenuti una nuova forma di moneta circolante, che sfugge alle analisi e rende problematici e inefficaci gli interventi di politica monetaria. E’ il mondo della finanza ombra, quel vasto mercato parallelo, nato tra le trame del sistema bancario internazionale, che ha reso mastodontica e fuori controllo la mole dei prodotti finanziari circolanti.
Una grossa fetta di questi prodotti finanziari ha per sottostante forme di debito, come ad esempio le ipoteche sulla casa. Con un meccanismo perverso, in cui il denaro viene creato attraverso il debito, si realizza una forma di speculazione assoluta che niente ha a che vedere con la creazione di valore, ma piuttosto con la sua distruzione.
E’ evidente che un sistema economico basato sulla speculazione sganciata dalla produzione e fondata sul debito, sia pubblico che privato, sia insostenibile.
Il paradosso del finanzcapitalismo è che trova nel caos e nella povertà il suo humus ideale, poiché proprio la speculazione sui debiti e sulle sofferenze ne è la linfa vitale. Il suo funzionamento è regolato da meccanismi complessi, artificiosi, che si basano sull’applicazione di modelli della fisica e della cibernetica: nulla di più lontano dall’economia reale!
I maggiori responsabili dell’affermarsi di questo sistema distorto e criminale sono i politici, venuti meno al loro compito di tutelare le fasce deboli e di assicurare il benessere sociale. L’intero sistema socio-economico liberista è ormai concepito per servire la finanza.
* Ilaria Bifarini, analista, specializzata su temi economici e finanziari, collabora con Scenari Economici, L’Intellettuale dissidente, Controinformazione.info.
Il contadino può vendere un “derivato” di fragole?
certo, la confezione con l’immagine delle fragole senza il prodotto dentro, si chiama anche scartiloffio (furto con destrezza) perché riesca deve avere tutte le caratteristiche della confezione autentica
Stupendo articolo che spiega in maniera chiara e succinta la sostanza del problema e rende l’idea della inaudita pericolosità sociale e valenza criminale di personaggi come Prodi, Ciampi, Draghi, Monti, Napolitano, Renzie e quanti altri tale sistema hanno imposto al Paese con la menzogna e con l’inganno.
Quello del capitalismo finanziario non è uno strumento di governo dell’economia, esso crea disarmonia come denuncia Joseph E. Stiglitz, scoprendo l’acqua calda, quando dice che “L’unica prosperità sostenibile è una prosperità condivisa”, e mettendo così in evidenza che un mondo senza regole, governato dalla ricerca del profitto ad ogni costo, semplicemente non ha futuro, perché se alla stragrande maggioranza della popolazione, ridotta a massa di consumatori il cui ruolo sarebbe quello di permettere al sistema di rigenerarsi, viene sottratta anche la capacità di spendere per la semplice ragione che la ricchezza viene tutta assorbita da una sempre più esigua minoranza, allora vuol dire che il sistema è stato costruito per autodistruggersi. Il mondialismo ha puntato alla deregulation, ad annullare lo stato-nazione e la sovranità dei popoli, e nello stesso tempo ha favorito con la globalizzazione la diffusione planetaria di caos e disarmonia dovuti all’azione della finanza speculativa che con i suoi prodotti ha avvelenato il sistema bancario portando alla bancarotta l’economia occidentale privandole della possibilità di finanziarsi. Bene fanno la Russia e la Cina a volersi sganciare, sottraggono le loro economie da una morte certa, e nello stesso tempo aprono a noi una strada per la salvezza. Un altro strumento adoperato per creare un caos globale ingovernabile è il terrorismo. Poi c’è la nuova narrazione di una libertà che consente tutto perfino la distruzione di ogni identità sia essa culturale o biologica, e lo fa facendola passare come la più grande delle conquiste. Le élite mondialiste hanno creato il caos su tutti i piani mettendo alla prova i limiti della sopportazione umana ma presentandosi anche come la “soluzione”. Purtroppo per loro molte sono le nazioni pronte a sottrarsi al cappio della finanziarizzazione dell’economia e nel contempo sorge la richiesta in Europa di ridare vita allo stato-nazione per governare lo sviluppo economico e le relazioni internazionali invece di abdicare ad un governo mondiale. Anche sul fronte della diffusione del terrorismo per loro non si mette bene, Putin e i paesi che resistono in Medioriente hanno dimostrato che può essere fermato. Sul piano culturale, poi, se ritroveremo la sovranità anche l’identità storica, culturale e quindi quella biologica verrà riaffermata.
Il senso della succitata affermazione di Stiglitz vale, in parallelo, nell’ambito biologico ed ecologico secondo le osservazioni per cui un ecosistema si regge su tutta una serie di equilibri modulati e dinamici, ma tali da non spostare troppo l’identità del medesimo verso un estremo. Qualora ciò dovesse invece accadere, si può assistere a un mutamento radicale degli equilibri che tendono a stabilizzarsi secondo entropia, potendo giungere a una trasformazione significativa dello stesso sistema; e in ambito naturale, un possibile mutamento indotto da parecchi decenni, o addirittura più, di forzatura, non si stabilizza in qualche giorno. Questo è uno dei motivi per cui una gestione oculata, anche nell’ambito agronomico e non solo ambientale generale, tende a non sopprimere completamente le specie ritenute patogene per le colture, poiché ne seguirebbe un danno per le specie predatrici delle stesse, che si ritroverebbe senza sostentamento diretto; nello specifico, si tratta dunque di abbassare la soglia patogena, ma senza eradicarla del tutto, a limiti che consentano la rimuneratività della produzione colturale, evitando il progressivo squilibrio del sostrato di produzione (quanto, nei termini della biologia, coincide con ciò che, nei termini dell’economia, è l’affermazione di Bagnai secondo cui la Germania stia segando il ramo su cui è seduta). Il minimo che si può trarre da questi concetti, intrinseci nella realtà e dalla stessa estrapolati – oltre all’evidenza che la biologia, non intesa come scienza bensì come insieme delle dinamiche del sostrato materiale naturale, preceda l’economia e la sociologia -, è che una estrema selettività tende a condurre ad altrettanti squilibri (istanza valida in qualsiasi altro ambito) e come la cosiddetta selezione naturale, ammesso che esista veramente nei termini secondo cui è stata postulata, differisca significativamente da quella indotta in modo antropico. Le decisioni prese da una oligarchia non rappresentativa della totalità e complessità antropologica mondiale dunque tendono ad instaurare una pressione selettiva, ma non su di un criterio naturale, bensì di mero interesse economico, sociale e politico; è sempre, o quasi sempre, stato così, ma allora non si dovrebbe far passare come progresso – e men che meno credervi – un procedimento selettivo, ritenuto a torto naturale, che stigmatizza un comportamento ricercato e indirizzato il quale, secondo invece logiche naturali, esaspera i rischi contrari.
Possibile risposta soggiace nell’esistenza di soggetti che, ben consapevoli di questa dinamica di cose, provochino scientemente squilibri da cui sanno come trarre guadagno, riuscendo a raccontare con successo che questo procedimento sia invece affatto conforme alla natura intrinseca della realtà di base, che riguarda tutti. E questo comportamento è concettualmente, prima ancora che ontologicamente, a dir poco diabolico.
Ho letto solo il titolo perché ho poco tempo, non vedo l’ora di poterlo leggere e commentarlo, è troppo importante come argomento, troppo!
La banca d’italia pubblica pamphlet che contengono simili ragionamenti: ““Le aziende in cui si gestisce in maniera più efficiente ed efficace il tema della diversity e dell’inclusione sono le stesse che hanno migliori performance economiche.” e che “Un’azienda che decide di lavorare su questi temi, investendo tempo e risorse, ha la grande opportunità di porsi davanti ai propri concorrenti sia in termini di reputazione che di motivazione dei propri collaboratori.”
Questi sarebbero coloro che sovrintendono alle nostre istituzioni finanziarie.
All’uopo invito a leggere: http://www.ereticamente.net/2017/01/la-mia-banca-e-differente-banker.html