Distruggere ogni libera espressione: la trappola delle “piazze digitali”

di Lorenzo Maria Pacini

Ne stanno già parlando molti giornali ed anche in televisione comincia a farsi sentire il nuovo concetto di piazze digitali. Di primo acchito, potrebbe sembrare una definizione quasi ossimorica e paradossale: le piazze sono per eccellenza il luogo fisico dell’incontro e del dialogo, l’agorà di greca memoria che è culla della cultura e della politica; non esiste città senza una piazza, anzi è proprio attorno ad una piazza che si costruisce una città, a tutte le latitudini, come a testimoniare l’essenzialità dell’essere comunità a fondamento della vita sociale umana di tutti i tempi. Allo stesso modo, anche nella post-modernità tecnoliquida, che si muove velocemente verso il transumanesimo integrale, non può certo mancare una trasposizione parodizzante di questo elemento archetipico della civiltà, ed è così che prende forma la digital square, la piazza digitale, uno spazio virtuale in cui incontrarsi su di una piattaforma per parlare di qualcosa.

Già avevamo sentito definire i social network come le nuove piazze, cosa a tutti gli effetti vera e sempre più determinante per lo sviluppo dell’opinione pubblica e la circolazione di informazioni, ma anche drammaticamente difficile e pericolosa visto l’insorgere di dipendenze di varia entità, disturbi neurocognitivi, affettivi e relazionali, violenze e nuovi reati, nonché il dramma della falsificazione dell’esperienza comunicativa umana con la conseguente solitudine interiore sempre più accentuata. Quanto però adesso ci viene proposto è molto più strutturato e controllato delle precedenti forme sperimentali: piazze digitali non è semplicemente la descrizione della trasformazione dei media in vere e proprie piazze, perché l’espressione riprendere alcuni progetti che sono di origine governativa, UE ed ONU. In Italia le piazze digitali sono state proposte qualche settimana fa da TIM con Operazione Risorgimento Digitale, ma anche dalla Fondazione Mondo Digitale del professore inglese Molina, così anche come dalla Protezione Civile stessa che nel 2020 ha parlato di piazze digitali per persuadere la gente a non uscire di casa, soprattutto in Emilia Romagna.

Telelavoro alienante

Al di sopra di queste secondarie apparizioni, chi ha adottato per primo nel mondo il termine, aprendo addirittura un’azienda con quel nome? Lo leggiamo direttamente dalla descrizione istituzionale riportata sul sito: “Digital Square is a PATH-led initiative funded by the United States Agency for International Development, the Bill & Melinda Gates Foundation, and a consortium of other donors” . Ebbene sì, anche dietro a questa nuova trovata del mainstream c’è il cognome che per eccellenza ha segnato il 2020, dai BigTech ai BigPharma, dalle proposte vaccinali ai piani di de-popolamento, passando per il Great Reset e l’ibridazione uomo-macchina.

Appare evidente che la programmazione delle élite transnazionali procede speditamente ed indisturbata nella direzione del controllo massivo e pervasivo anche di quegli ultimi spazi di resistenza e libertà comunicazionale.

Il problema centrale dell’avvio delle piazze digitali, infatti, è quello del dominio: chi controllerà le piazze? Chi potrà definire quali sono e quali no delle piazze? Che esercizio del potere, e di quale potere, stiamo parlando? Domande che in parte trovano già le risposte cogliendo quei paradigmi indiziali che sono riscontrabili dalla lettura degli eventi in corso, affiancandone il tumultuoso percorso storico dell’ultimo secolo; domande che, in parte, resteranno senza risposta fino all’istante in cui ci troveremo a vivere quei momenti, nel fluire iperattivo del mondo contemporaneo, dove il dato arriva prima della persona, e dove persino il cuore della civiltà viene sostituito da una macchina il cui pulsante di accensione e spegnimento non è nelle tasche di ognuno di noi.

Lorenzo Maria Pacini

Fonte: Il Pensiero forte.it

14 thoughts on “Distruggere ogni libera espressione: la trappola delle “piazze digitali”

  1. Si sarò ripetitivo ma se si mettesse su un rogo questa feccia altro che “piazze digitali”.
    Invece no,tutti mascherati a crearsi danni irreparabili al cervello perché la tv rompe le palle con un virus che non esiste.
    Ah si….
    I cervelli già erano danneggiati irreparabilmente da tempo per arrivare a questo.
    Beh che dire,buon bavaglio a tutti

      1. oggi l’elemento provocatore è anche sanitario. Oggi chi in democrazia dice solo un ‘ma’ innanzi i depositari della verità assoluta di stato, magari pacatamente argomentando, se non è classificato è perlomeno sospettato di essere un ‘terrorista’

        quindi l’equazione è: più si ficcano il siero più contagi ci sono ?

        1. ogni Nazione ha le sue Leggi da rispettare

          Tunisia, Fathi Laàyouni: gli omosessuali devono essere imprigionati o internati in psichiatria

          “il sindaco di Kram, Fathi Laàyouni ha ritenuto che non fosse normale discutere dei diritti degli omosessuali in un paese musulmano, rilevando, nello stesso contesto, che il posto di questi ultimi è in prigione o in ospedale (con riferimento ai servizi psichiatrici).

          Essendo sindaco di Kram, Laâyouni ha detto che gli omosessuali non possono entrare in quest’area”

          https://www.tunisienumerique.com/tunisie-fathi-laayouni-les-homosexuels-doivent-etre-emprisonnes-ou-internes-en-psychiatrie/

          1. La pena per l omofilia così come per la pedofilia,la zoofilia ecc. deve essere la morte,sempre d dovunque.
            Mi spiace vedere che la propaganda pedo/omofila sia arrivata pure li.
            Ma saranno messi ai roghi.

  2. Le piazze digitali non sostituiranno mai una bella raffica di Kalasnikov …… con i quali si potrebbe giustiziare Bill Gates e soci …… cosi come il sesso virtuale non potrà mai sostituire quello reale ……..

    1. Ok, non fa una piega ma quanti la pensano così, sarebbe ora di dar corpo a queste idee prima che ci fottono completamente, la migliore strategia é sempre la sorpresa e l’attacco preventivo !

    1. forse non avete compreso che è politica: democratica. In Russia, Sovranista, non c’è un cazzo di niente di ste regole di merda

  3. I cosiddetti “colletti bianchi”, sempre compìti nel proprio comportamento, che non perdono occasione per criticare con disprezzo chi, del volgo, usa la piazza – “far piazzate” – per render pubbliche le proprie ragioni, ebbene, costoro, ora e non solo ora*, usano la tanto deprecabile piazza, che li ha resi tali, seppur, adesso, digitale, dove in un recente passato i propri avi usavano mercanteggiare quelle paccottiglie che solo al volgo, produttore di beni essenziali, potessero interessare.

    *non per nulla, provvedimenti di carattere politico, vengono adottati solo ed esclusivamente in funzione delle piazze (si veda l’indice di contagio del covid che cambia in funzione delle P.). Piazze frequentate, appunto, da bancarellari in doppiopetto sempre pronti a smontare le proprie bancarelle per rimontarle in piazze dove la speculazione a danno del volgo di cui si “cibano” è più promettente.

  4. i potenti hanno paura della piazza, da sempre sinonimo di rivolta popolare, nelle piazze negli anni 70 si creavano i sodalizi che poi portavano agli scontri tra diverse fazioni ideologiche, e dopo quegli anni chi governa ha cercato sempre più di allontanare la gente dalla piazza, dal ritrovarsi insieme per condividere lo stesso pensiero, per protestare contro il potere : dapprima la tv, poi i cellulari ed infine internet
    una piazza virtuale non avrà mai la stessa potenza, la stessa concentrazione di rabbia che può avere una piazza piena, loro lo sanno e sono riusciti ad allontanarci gli uni dagli altri
    dividi et impera, preso alla lettera.

    1. “…….una piazza virtuale non avrà mai la stessa potenza….” Spero sia come pensi. Ma temo di no. Non è difficile dimostrarlo anche se a tutto c’è rimedio, si, ma con la forza. Non è un invito alla violenza ma solo la constatazione che chi ha raggiunto l’obiettivo che persone sane di mente lamentano, l’ha conseguito con la violenza che non sempre è fisica, ma anche. “……: dapprima la tv*, poi i cellulari ed infine internet …..” Cosa sono queste, se non piazze virtuali indirizzate al disfacimento della coesione sociale “….sono riusciti ad allontanarci gli uni dagli altri….” e, aggiungo, a conformare abitudini distruttivi personali? Tale intento fu potenziato strumentalizzando la femmina dell’uomo, con l’invenzione del femminismo.

      Femminismo: gruppuscoli di menomate mentali oltreché ignoranti,* che solo ora, forse, iniziano a scorgere la violenza che si sono impartite impedendo, con il comportamento suggerito, lo svolgere il primario ed incontestabile compito per cui sono in vita: figliare.
      E’ di qualche giorno la notizia secondo la quale, dopo decenni di scarse di nuove nascite, dovute alle piazze virtuali di cui sopra ( non di certo al covid come si tenta di motivare per via degli “eccessivi” decessi ), le medesime, sempre maggiori in numero alle morti, ora ne sono la minoranza.

      *t.v. di Stato, madre di tutte le piazze. Tale comprensione fu una delle ragioni per cui fu trucidato Pier Paolo Pasolini.
      * art. 3 della Costituzione, primo capoverso e non solo.

      1. “La Convenzione di Istanbul è la figlia europea di due conferenze ONU, quella del Cairo (1994) e quella di Pechino (1995), entrambe imperniate sul tema della violenza contro le donne, dell’emancipazione femminile e dei diritti LGBT, entrambe monopolizzate da gruppi di potere organizzati che ne diressero i lavori in modo truffaldino. Lo testimoniò Dale O’Leary, che partecipò alle conferenze per poi riversare prove e osservazioni nel suo libro “la guerra del gender”. Oltre a sancire l’alleanza tra istanze ideologiche femministe e “queer”, le due conferenze dettarono al mondo i lineamenti di una nuova chiave di lettura della realtà: decaduto il paradigma marxista “lavoratori-contro-padroni”, si affermava una nuova dicotomia, stavolta derivata da Engels, tra una nuova categoria di oppressi, le donne, e una nuova categoria di oppressori, gli uomini. Questa nuova impostazione, destinata a diventare uno dei principali vessilli del nuovo progressismo, si infiltrò gradualmente in ogni ganglio e in ogni falda della cultura, della società e della politica, attraverso una crescente opera di pressione facilitata del clima securitario ingenerato dai fatti dell’11 Settembre 2001 e dalla diffusione delle problematiche di riservatezza collegate all’uso dei sistemi informatici e delle reti. Dopo aver impregnato in modo carsico le radici della società occidentale, quella chiave di lettura è salita in superficie ed è esplosa come un geyser a partire all’incirca dal 2009. Quella è più o meno la data a partire dalla quale esce allo scoperto e dilaga quell’impostazione ideologica che oggi, dopo dieci anni di avvelenamento generale, viene data per assodata. Un’impostazione basata su un teorema ben preciso, derivato da un principio che è comune denominatore di tutti i femminismi, da quello della prima ondata in poi: gli uomini da sempre opprimono le donne sotto ogni aspetto, sfruttandole e asservendole sistematicamente con l’uso della forza o con la violenza fisica, psicologica ed economica. Dall’origine dei tempi ad oggi, dunque, le donne sono vittime di una supremazia maschile coordinata per soffocare la superiorità morale e biologica femminile. Oggi, così deduce il teorema, è tempo di ribaltare i ruoli, di esigere e ottenere un risarcimento per questa oppressione storica e attuale. Non più la rivoluzione dei lavoratori contro l’oppressione borghese, da rovesciare per istituire una nuova e illuminata dittatura del proletariato, ma una rivoluzione delle donne contro l’oppressione maschile, con lo scopo corrispondente di istituire una nuova e illuminata dittatura femminile. È la follia della “teoria del patriarcato” che, sebbene non abbia alcun riscontro reale nella storia (diversamente dalla lettura marxista impostata sulle classi sociali), si afferma nel vuoto culturale e nel disorientamento del primo decennio del nuovo secolo e ancor più nel decennio successivo. La Convenzione di Istanbul è uno dei prodotti di questa nuova visione del mondo, che innesca una “guerra dei sessi” contrapponendo due generi istituiti e impostati per contemperarsi e collaborare anche, sebbene non obbligatoriamente, all’interno di un’istituzione la cui sussistenza ha caratterizzato i secoli precedenti e ha garantito l’evoluzione umana così come la conosciamo oggi, ovvero la Famiglia. Secondo molti, cui è difficile dar torto, la nuova ideologia è uno strumento del sistema economico globalizzato, che necessita di smantellare ogni presidio sociale, di polverizzare le comunità in individui isolati, in un pulviscolo di frustoli privi di ogni radicamento e protezione, dunque facili da governare in generale e in particolare nelle loro scelte di consumo, su cui per altro il mondo femminile la fa da padrone (l’85% dei consumi mondiali deriva da decisioni femminili).

        La verità sta dove non c’è conflitto d’interesse.

        Nel 2011 questa nuova visione è appena uscita allo scoperto e sul piano europeo produce un documento, appunto la Convenzione di Istanbul, che soltanto vent’anni prima sarebbe stato considerato irricevibile sotto diversi aspetti. Nei suoi contenuti, anzitutto, laddove si incentra su un solo tipo di violenza, quella degli uomini contro le donne, derubricando implicitamente come meno importanti gli altri tipi di violenza e di fatto cancellando la natura umana e trasversale della violenza stessa. Inserisce nel testo una forma di “contentino”, più per evitare critiche di sessismo che altro, includendo anche la dicitura di “violenza domestica”, che come tale potrebbe includere anche gli uomini come vittime. Tuttavia la sua interpretazione pubblica e la sua applicazione pratica nei diversi paesi sarà unilaterale ed escluderà di netto ogni iniziativa di tutela verso la sfera maschile. Ma non è l’unica anomalia: a dare un inquadramento internazionale è il “Consiglio d’Europa”, un carrozzone postbellico che nulla ha a che fare con l’Unione Europea, più volte in predicato di venire smantellato e poi recuperato dall’ONU, che lo utilizza da anni come proprio hub continentale per la diffusione e l’imposizione delle sue direttive. La debole legittimità internazionale è confermata da altri aspetti: una volta proposta alla ratifica su scala globale, la Convenzione di Istanbul fatica diversi anni per entrare in vigore, segno di una diffusa resistenza ai suoi dettami. Alla fine ci riesce grazie al raggiungimento del numero minimo richiesto di ratifiche da parte degli stati, tra i quali si contano paesi sostanzialmente irrilevanti sullo scacchiere internazionale. È anche all’adesione di realtà come Lussemburgo, Montenegro, Andorra, Principato di Monaco, Malta, Bosnia ed Erzegovina che la Convenzione deve la sua entrata in vigore, mentre da essa si tengono ampiamente alla larga, pur potendola ratificare in principio, paesi come Russia, Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Cina. Sul piano del diritto internazionale si tratta insomma di un flop colossale, un mostriciattolo che negli anni ’80 sarebbe automaticamente decaduto, mentre all’inizio del nuovo millennio permette a una narrazione potentemente tossica di espandersi e a mettere radici presso i paesi che l’hanno ratificato, imponendosi come pretesto per la realizzazione di politiche coerenti con il falso “teorema del patriarcato”.

        Dieci anni dopo la sua approvazione, gli esiti della sua applicazione sono variegati. In quasi tutti i paesi ratificatori si sono concretizzati in politiche che criminalizzano o sfavoriscono sistematicamente la sfera maschile della società. Simbolo principale di queste policy è la diffusione in proporzione geometrica di centri asseritamente dedicati ad accogliere e assistere le donne vittime di violenza. Costituiti come associazioni e ampiamente finanziati da denaro pubblico, acquisiscono implicitamente dallo Stato il compito di front-office rispetto a quel tipo di problematica, senza però essere soggetti ad alcun tipo di vincolo di trasparenza né sugli accessi reali né tanto meno sull’utilizzo delle risorse. In questa posizione cominciano a drenare milioni di euro e ad acquisire un potere dalle molte sfaccettature: diventano trampolino di lancio per diverse carriere politiche; si costituiscono come centri clientelari per la politica stessa; si comportano come centrali propagandistiche e di indottrinamento attraverso corsi di formazione somministrati ad ogni livello, dalle forze dell’ordine fino alla magistratura, passando per le scuole; entrano nei procedimenti come parte civile (così arraffando ulteriori risorse); assumono un ruolo di seminatori di zizzania piuttosto che strumenti di assistenza. Ovunque, si registra come all’intervento di un centro antiviolenza molto spesso corrisponda una degenerazione dei conflitti e una moltiplicazione illimitata del fenomeno delle false accuse di donne a carico di uomini. Nei centri antiviolenza e case rifugio possono lavorare soltanto donne, e soltanto donne possono essere da essi accolte. Ciliegina sulla torta sono le statistiche che essi, da soli o tramite i loro coordinamenti nazionali, producono: grazie al pretesto della “privacy” per le loro assistite, non è mai possibile verificare i numeri che dichiarano e autocertificano. Tutti sempre di proporzione emergenziale, passivamente acquisiti anche da enti statistici ufficiali (ISTAT ad esempio), in spregio al confronto con dati reali acquisiti da altri soggetti (magistratura e forze dell’ordine), che ne smentiscono regolarmente la fondatezza. Così si ha la rete dei centri antiviolenza che da un lato afferma l’esistenza di una “emergenza violenza contro le donne e femminicidi” basandosi su dati autoprodotti e non verificabili, e dall’altro numeri reali che parlano dell’Italia come di un Paese tra i più sicuri al mondo in generale e in particolare per le donne. La verità dove sta? Evidentemente laddove non c’è un conflitto d’interesse, dunque dall’altra parte rispetto alla corporate dell’antiviolenza fondata in molte parti d’Europa a partire dalla Convenzione di Istanbul.

        Nonostante questo, grazie alla rete d’appoggio internazionale e al grande afflusso di risorse pubbliche, è proprio la narrazione di quella corporate a imporsi sul piano della comunicazione pubblica e dell’opinione diffusa. In Italia (ma è uguale in altri paesi firmatari della Convenzione) si finge di non vedere a quali anomalie mostruose conduca l’azione e la visione del mondo veicolata dalla Convenzione di Istanbul. Uomini e padri criminalizzati senza prove e alienati dai figli (il caso di Giuseppe Apadula è uno dei più noti, fra le migliaia), altri spinti in un calvario giudiziario interminabile grazie a false accuse di abuso su minori o di altri reati (noti sono i casi di Matteo Sereni, Marco Quaglia, Tiberio Timperi e tanti altri), non pochi dei quali non reggono la pressione e si tolgono la vita (Luigi Tarascio, Roberto Pauluzzi e tanti altri), il tutto sempre con la compartecipazione in qualche forma degli interessi connessi ai centri antiviolenza o case rifugio nati su sollecitazione e sotto la protezione della Convenzione di Istanbul. Ciò di cui stiamo parlando, a titolo d’esempio, è quel potere, un vero Stato nello Stato, che in piena emergenza pandemica ha ricevuto dal Ministero delle Pari Opportunità 30 milioni di euro, così sottratti ad altre situazioni in quel momento realmente critiche nel Paese. È un centro antiviolenza, la “Casa Internazionale della Donna”, che ottiene la copertura di una morosità decennale di quasi un milione di euro attraverso una legge nazionale, un vantaggio mai riservato a nessun’altra associazione con ruoli e funzioni ben più cruciali. La Convenzione di Istanbul, insomma, nel tempo ha creato una gigantesca sacca di privilegio, da un lato, e dall’altro un’arma devastante di oppressione verso il genere maschile-paterno e verso la realtà familiare. Un effetto a cui taluni paesi, non più disponibili a sottostare a diktat sovranazionali, incominciano a volersi sottrarre. L’Ungheria di Orbán rifiuta la ratifica giudicando la Convenzione in contrasto con la propria Costituzione. La Polonia segue a ruota annunciando il ritiro dalla Convenzione

        essa devasta la realtà familiare, facilita il dilagare di ideologie distruttive e soprattutto la tutela contro violenze e omicidi è garantita da leggi dello Stato, non da associazioni, conventicole, lobby e gruppi di pressione che fanno della mistificazione la cifra della loro azione.

        Una malafede confermata anche dai molti contatti di alto livello che abbiamo da quelle parti, a cui abbiamo chiesto quanto c’è di vero in quanto asserito da soggetti come “We Will Stop Feminicide Platform”, che parlano di tre “femminicidi” al giorno in Turchia e ora protestano nelle piazze di Ankara e Istanbul. Ci è stato risposto che tutto il mondo è paese: in quei dati vengono infilate uccisioni di ogni tipo, per mano di chiunque, giusto per fare mucchio, come accade qui da noi. E, come qui da noi, in realtà la maggior parte dei morti ammazzati è uomo così come la maggior parte dei carcerati, compresi quelli condannati per omicidi e violenze (anche contro le donne)

        se ci fosse, comprenderebbe al volo quanto la Convenzione di Istanbul confligga con l’Art.3 della nostra Costituzione, quanti danni ha fatto e fa, quale gigantesco sperpero di denaro pubblico implichi, e quanto legittimo sarebbe un ritiro italiano nel momento in cui, a norma di diritto internazionale, si riscontrassero come decadute o non più esistenti le condizioni che ne avevano precedentemente giustificato la ratifica. Alla luce del fatto che da dieci anni sono meno di 5.000 all’anno (0,01% della popolazione maschile adulta) gli uomini condannati per violenze contro le donne (dati del Ministero della Giustizia, via ISTAT) e che solo a metà Febbraio siamo stati incoronati dall’Unione Europea come paese più sicuro del continente per le donne, e forse del mondo, il ritiro dell’Italia dalla Convenzione di Istanbul e lo stop netto a tutto ciò che ne consegue dovrebbero essere priorità assolute di ogni governo degno del proprio ruolo. Dunque ne avremo ancora parecchio da attendere.

        https://www.lafionda.com/fuori-dalla-convenzione-di-istanbul-le-ottime-ragioni-della-turchia/

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