Attacco al lavoro. La sinistra in prima fila

di Eugenio Orso

Ero certo che l’attacco al lavoro neocapitalista, con il pieno supporto di quella che nell’altro secolo era “la sinistra” e l’acquiescenza sistematica dei sindacati gialli (più o meno tutti), non sarebbe cessato con la diffusione a macchia d’olio dei contratti precari dalla fine degli anni novanta, con la contrattualistica “ad hoc” di Marchionne fuori dalla confindustria, con la “contrattazione separata” per il settore metalmeccanico che divideva la trimurti sindacalese (fim-cisl e uilm-uil firmatarie in proprio, in barba alla fiom-cgil).

Alla fine del 2009, in occasione dell’accordo separato per il rinnovo del contratto nazionale metalmeccanico, firmato da fim-cisl e uilm-uil e federmeccanica, escludendo fiom-cgil che starnazzava a vuoto, erano già chiarissimi (per chi li voleva leggere) i segnali di un attacco generale portato contro il lavoro stabile, in termini di redditi e diritti, e l’intento controriformista di più lungo periodo dei governi, di gran parte del sindacato e della confindustria. Dopo la diffusione a macchia d’olio della precarietà, aggirando lo Statuto dei Lavoratori, la parola d’ordine neoliberista era colpire i “vecchi” contratti. Si trattava di politiche contro i lavoratori imposte dall’esterno, nel più generale quadro, in occidente, di affermazione piena del neoliberismo e di un’assolutistica “democrazia di mercato”, fondata sul predominio del grande azionista proprietario (shareholder, in neolingua), sulla prevalenza delle ragioni della finanza internazionalizzata e sulla creazione del valore azionaria, finanziaria e borsistica. Siamo andati negli anni ben oltre Marx e la classica estorsione del plusvalore, a beneficio dei detentori del capitale produttivo.

L’attacco al lavoro dipendente si è sviluppato attraverso alcune fasi storiche cruciali, a partire dal 1980. Vediamole sinteticamente di seguito.

1) Antefatto. Anni ottanta. La marcia dei quarantamila del 14 ottobre 1980, equivalente a una prima, storica sconfitta operaia in quel di Torino, ancora capitale dell’auto italiana, preparò il terreno per il decreto di San Valentino del governo Craxi, il 14 febbraio 1984, che rappresentò il primo, deciso attacco contro la scala mobile, destinata a essere completamente soppressa. Il referendum dell’anno dopo confermò il decreto e il conseguente taglio dei punti di contingenza. Iniziarono a cadere in basso il Pci di Berlinguer e poi di Natta (in transizione dagli anni settanta alla socialdemocrazia europea) e l’allora Cgil di Lama, con la Fiom al suo interno. La classe operaia iniziò letteralmente a disintegrarsi, sul piano culturale, su quello sociale e su quello politico. Anche il lavoro impiegatizio e intellettuale dipendente, comunque beneficiario della scala mobile (cioè del meccanismo, sancito per legge, di adeguamento automatico di salari e stipendi all’inflazione), ne risentì un poco, ma l’attacco vero e proprio al ceto medio, nato dal welfare postbellico, si svilupperà massicciamente negli anni duemila. Si trattò dell’avvio di una vera e propria “rotta di classe” ancora in habitat capitalistico-produttivo, che avrebbe preparato il terreno al dominio neoliberista, globalista, finanziario e postborghese del secolo successivo. Lo spauracchio negli anni ottanta era quello dell’inflazione (fino all’iperinflazione, abbondantemente a due cifre), agitato con il vero scopo di modificare la distribuzione del prodotto sociale fra lavoro e capitale, con la fatale e progressiva riduzione dei redditi popolari e da lavoro dipendente.

2) Transizione al neocapitalismo. Anni novanta. Oltre alle riforme delle pensioni (Amato 1992, Dini 1995 e Prodi 1997) sempre sfavorevoli a lavoratori e subordinati, oltre le note privatizzazioni del Britannia (con elementi come Mario Draghi in prima fila), vi fu nel 1992 l’abolizione definitiva della scala mobile, cioè della mitica indennità di contingenza, per opera del governo Amato e delle cosiddette parti sociali (sostanzialmente la triplice sindacale e la confindustria), che a tale proposito firmarono un “protocollo d’intesa” finale. Giuliano Amato, socialista che faceva l’occhiolino al grande capitale, ha portato a compimento l’opera di Bettino Craxi, anch’esso socialista e cinghialone lib-lab, “riformatore” del psi fin nel simbolo, nemico giurato del vecchio Pci e della classe operaia, ormai in smobilitazione.

Un complice illustre di Amato, nell’operazione, fu Bruno Trentin, uomo del pci e poi dei ds, successore di Pizzinato alla segreteria generale della cgil (questa volta in minuscolo, data la storica capitolazione), che firmò il protocollo d’intesa inguaiando milioni di lavoratori, ivi compresi quelli delle generazioni future. Poi però si dimise, probabilmente per la vergogna che assale traditori e venduti, se ancora dotati di un po’ di coscienza. Negli anni dal 1993 al 1995 si affacciò sulla scena il “giuslavorista” Marco Biagi, figura centrale della precarizzazione del lavoro in Italia. Come abbiamo compreso con il senno di poi (di cui sono piene le tombe), “giuslavorista” è il titolo politicamente corretto attribuito ai massacratori sociali per conto terzi, novelli alchimisti esperti di diritto e mercato del lavoro. L’esimio professor Biagi divenne, nel 1995, consigliere di Tiziano Treu al ministero del lavoro (governo Dini), negli anni successivi consulente di Romano Prodi alla presidenza del consiglio, nonché dei ministri Bassolino e Treu (sostituito da Bassolino al lavoro e finito ai trasporti). La cosiddetta sinistra riformista e democratica, era in fermento per “rinnovare” rapporti di lavoro e relazioni industriali, in accordo con l’emergente modernità neocapitalista. La parola d’ordine era allinearsi a tutti i costi alle economie “più avanzate” e diventare competitivi, negli scenari global-finanziari che già si delineavano con una certa chiarezza. L’alternativa collettivista sovietica non esisteva più, come utile contrappeso per la difesa dei diritti dei lavoratori, il pci era morto e sepolto, la cgil addomesticata e la sinistra diventava definitivamente neoliberista al governo con Prodi (primo esecutivo, da maggio 1996 a ottobre 1998). Inoltre, dal 1992 la vecchia Comunità Europea a maglie larghe, che effettivamente aveva garantito un po’ di pace e di emancipazione di massa nel vecchio continente, era stata sostituita dall’unione elitista, che procedeva imponendo gradualmente ai paesi (soprattutto quelli più deboli) una logica anti-sociale, finanziaria, totalmente irrispettosa del lavoro e dei suoi diritti. Non era ancora giunto il tempo della perdita irrimediabile e completa della leva monetaria e delle cessioni definitive di sovranità (caratteristiche dei duemila), ma il terreno era fertile per agire sul lavoro, in particolare quello dipendente, e ovviamente contro i lavoratori, le loro condizioni di vita, i loro diritti incompatibili con le logiche finanziarie neodominanti. Monopolio pubblico del collocamento e tempo indeterminato come regola, fino a quel momento avevano caratterizzato il lavoro dipendente in Italia. Più concretamente, si decise che i tempi erano maturi per andare oltre, molto oltre la semplice “moderazione salariale”, imposta negli anni ottanta e definitivamente realizzata con l’eliminazione della scala mobile. La scusa non era più la lotta al “mostro” dell’inflazione, ma quella contro la disoccupazione. L’incaricato, al ministero del lavoro prima con Dini e poi con Prodi, fu il “sinistro” Tiziano Treu (area detta riformista, rinnovamento italiano, democrazia e libertà, infine partito democratico dal 2007), con la consulenza di Biagi, grande esperto in materia. Il risultato fu il cosiddetto Pacchetto Treu, un insieme di norme in gestazione dal 1995 emanate con la legge 196 del 1997. La legge introdusse il lavoro interinale, che nel 2003 divenne “somministrato” con la Biagi (detta anche Maroni, o Sacconi), rimuovendo un vecchio e salutare divieto del 1960 e aprì le porte, oltre che al tirocinio o stage, al lavoro “atipico” in Italia, il quale, con il passare degli anni, divenne sempre più tipico, scalzando il lavoro buono e tutelato. Questo fu un passo decisivo, da ricordare, spacciato per lotta alla disoccupazione e facilitazione degli ingressi nel mondo del lavoro. Si predispose il terreno per il cambiamento in senso neocapitalistico, creando, nel tempo, una nuova generazione di lavoratori, questa volta precari, dimentichi della stagione delle lotte e dei diritti. Gli effetti sociali, politici e culturali si sarebbero visti nel secolo successivo.

3) Fase della precarietà diffusa, attacco al lavoro stabile e tutelato. Primo decennio del nuovo secolo. 3.1] Precarietà diffusa. Fino agli anni novanta abbiamo notato come i principali attacchi al lavoro, sono partiti proprio da quella sinistra che avrebbe dovuto tutelarlo. Craxi nel 1984 e Amato nel 1992, ambedue socialisti, con l’acquiescenza di Trentin, ex comunista, per dare il colpo di grazia alla scala mobile. Poi, Treu il riformista al ministero del lavoro e Prodi, capataz dell’ulivo e presidente del consiglio all’epoca del “Pacchetto Treu”. La prima, seria minaccia all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che fino a oggi ha impedito i licenziamenti facili e generalizzati (da quindici dipendenti in su), fu portata – per la prima volta – non “da sinistra”, ma dal secondo governo Berlusconi. Una minaccia presto rientrata, perché il 23 marzo 2002 vi fu un’oceanica manifestazione della cgil e del cosiddetto centro-sinistra, al Circo Massimo in Roma. Tre milioni i mobilitati. Cofferati in testa, vi parteciparono D’Alema e Fassino, con Veltroni e la Bindi, Violante, Mussi e Ingrao (veri amici del popolo lavoratore, anzi, compagni come l’incrollabile Peppone?). Con il senno di poi, appare chiarissimo che la difesa dell’articolo 18 ha rappresentato un buon pretesto per far cadere l’esecutivo berlusconiano (cosa non riuscita, all’epoca, mancando lo “zampino” sopranazionale) e una manifestazione di massa dell’antiberlusconismo insorgente, più che una difesa cosciente dei diritti dei lavoratori. Se non che, fu proprio il secondo esecutivo Berlusconi a “innovare”, l’anno successivo, per quanto riguardava la precarietà del lavoro, con la famigerata legge Biagi, detta anche Maroni, allora ministro del lavoro, o Sacconi, coordinatore con Biagi del “gruppo di lavoro”. Anche questa di non brevissima gestazione, come l’ormai famigerato “Pacchetto Treu”. Dopo la delega al governo che produsse la legge 30 e dopo la prematura scomparsa di Biagi, il tutto si concluse con il decreto legislativo di attuazione n. 276, entrato in vigore ai primi di ottobre del 2004. La Legge Biagi ha ampliato il ventaglio dei contratti atipici stipulabili – lavoro intermittente, accessorio, co.co.pro. in sostituzione delle co.co.co., somministrati in luogo d’interinali, eccetera – con la scusa di agevolare l’ingresso, particolarmente delle giovani generazioni, nel mercato del lavoro. Nella realtà, invece, ampliò la distanza fra il lavoro tutelato a tempo indeterminato e quello precario, correggendo in negativo il “Pacchetto Treu”. Il lavoro atipico a termine richiederebbe, a parità di mansioni svolte, una retribuzione più alta rispetto a quella del lavoratore stabile, per compensare l’insicurezza e la temporaneità dell’impiego. Ovviamente così non fu e il precario ebbe svantaggi anche sul fronte delle retribuzioni. Non solo, ma la moltiplicazione della precarietà non fece schizzare in alto l’occupazione, verso il “pieno impiego”, e non diede contributi significativi alla mitizzata produttività del lavoro, rilanciando l’economia italiana. Emersero in pieno le figure dei parasubordinati – in Europa “lavoro autonomo economicamente dipendente” – che non erano autonomi ma dipendenti mascherati, senza diritti e con basse retribuzioni. Dopo la sconfitta elettorale di Berlusconi per opera di Prodi, nel 2006, la palla passò ancora alla sinistra neoliberista. La legge n. 247 del 2007, di attuazione del “Protocollo sul Welfare” siglato dal Prodi secondo e dalle parti sociali, ha modificato il decreto legislativo n. 276, senza però aggravare sensibilmente (per una volta …) le già pessime condizioni dei precari, che ormai tendevano a prevalere sul tempo indeterminato nelle nuove assunzioni. 3.2] Attacco al lavoro stabile e tutelato. In questa fase, che abbraccia un intero decennio, oltre all’estensione della precarietà per le nuove generazioni, si è intensificato l’attacco al lavoro stabile a tempo indeterminato, particolarmente nel privato di medio-piccole, medie e grandi dimensioni. Il settore pubblico (come ad esempio la scuola) fungeva ancora da serbatoio di consensi irrinunciabile per la sinistra, trasformista e serva del grande capitale finanziario, quindi sarebbe stato l’ultimo a subire l’attacco finale. Queste cose le ho scritte e riscritte. Si può dire che la vado scrivendo e ripetendo da anni. Le fasi dell’attacco al lavoro sono ormai chiare a chi vuol vedere, rappresentando altrettanti passi, in buona parte già compiuti, per adattare la società italiana all’ordine neocapitalistico. Diffusa la precarietà, si doveva procedere alla flessibilizzazione del lavoro stabile, riducendone le garanzie e i costi. A partire dal settore privato. Particolare importanza, pratica e simbolica, ho attribuito all’Accordo separato per il rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici, firmato il 15 ottobre 2009 da due soli sindacati della trimurti, fim-cisl e uilm-uil, escludendo il più rappresentativo, cioè la fiom-cgil. Importanza simbolica perché il settore metalmeccanico, per molti anni nel dopoguerra, è stato quello trainante delle lotte operaie e sindacali, e tale e rimasto, benché ridimensionato, fino a pochi anni fa. L’attacco ai metalmeccanici ricorda un poco quello della Thatcher ai minatori britannici negli anni ottanta (nel merito, non per la durezza e la durata dello scontro, ovviamente), onde sconfiggere la resistenza dove avrebbe potuto essere più forte e decisa. Ormai prona davanti al potere politico, specie se “di sinistra”, e soprattutto davanti ai simulacri della democrazia liberale e del “pacifismo”, la fiom-cgil non fu l’equivalente del National Union of Mineworkers guidato dal coriaceo Arthur Scargill, e l’accordo separato, a ribasso per i lavoratori e apripista di nuovi, futuri colpi, passò senza grandi scossoni, nonostante qualche inutile sciopero e qualche protesta inefficace. Se la NUM di Scargill perse con onore contro Margaret Thatcher e la sua polizia, altrettanto non può dirsi per la fiom-cgil, che non organizzò una resistenza a oltranza dei metalmeccanici, con azioni efficaci, cercando di estendere la lotta anche in altri settori produttivi e della società, minacciati dall’attacco al lavoro neocapitalista, ma semplicemente illuse i lavoratori e poi abbassò la testa. All’epoca (cinque anni fa) scrissi quanto segue. Entrando brevemente e da non “esperti” nel merito della parte economica, si nota che l’aumento medio – per la 5a categoria – è di 110 euro lordi, di cui soltanto 28 euro lordi corrisposti per il 2010 [a far data dal primo gennaio], mentre al primo gennaio 2011 arriveranno 40 euro e il primo gennaio 2012 42 euro. Se pensiamo che una buona parte del milione e settecentomila lavoratori metalmeccanici è inquadrata in 3a categoria, per moltissimi gli aumenti lordi saranno ancora inferiori, rasentando cifre insignificanti, inferiori persino a quelle della social card tremontiana: 24,15 euro con la prima tranche, 34,50 con la seconda e 36,23 con l’ultima. Una sorte migliore non avranno coloro che sono inquadrati nella 7a categoria, poiché del lordo totale pari a 144,38 euro per il prossimo triennio, nel 2010 vedranno soltanto 36,75 euro. Con l’accordo separato per il Ccnl metalmeccanico si costituisce altresì un Fondo di sostegno al reddito ad adesione volontaria, che dovrebbe essere impiegato a favore di quei lavoratori che subiscono riduzioni di reddito per periodi prolungati, al quale oltre alle imprese contribuiranno con un euro mensile di prelievo [versamento a gennaio 2013] i lavoratori che vi avranno aderito. Sullo sfondo si staglia l’ombra della [mitica] contrattazione di secondo livello, probabile ultima spiaggia per integrare con qualche spicciolo questo possibile, futuro e pessimo Ccnl, pensato per affossare più che sostenere il “potere d’acquisto” dei metalmeccanici. [ … ] Mi è stato fatto notare, da chi ha competenza in queste materie ed esperienza in campo sindacale, che il quadro generale dell’offensiva contro il lavoro dipendente [e gli stessi lavoratori] deve essere ricostruito “mettendo insieme”, come si fa con le tessere sparse di un mosaico da ricomporre, la legge finanziaria del governo, il libro verde di Sacconi, i protocolli di intesa fra i governi e le parti sociali [dal Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo e siglato dalle parti sociali nel lontano mese di luglio del 1993 all’Accordo Interconfederale del 15 di aprile 2009] fino ad arrivare al livello contrattuale, livello in cui l’attacco al lavoro si concreta e si precisa nelle parti economica e normativa. [ … ] Coloro che hanno firmato questo accordo separato non lo hanno certo fatto inconsciamente e frettolosamente, come qualcuno ottimisticamente afferma, ma lo hanno fatto in cambio di contropartite di becero sotto-potere, con tutta l’autoreferenzialità di un sindacalismo burocratizzato e contro-riformista, e se non vi sarà contrasto nei prossimi mesi, si appresteranno a diventare gli squallidi kapò nel grande campo di concentramento in cui sarà relegato, per i decenni a venire, il lavoro dipendente in Italia. In questa Italia in cui i salari sono fra i più bassi e fiscalmente tartassati dell’Europa occidentale, in cui il novanta per cento dei datori di lavoro dichiara redditi inferiori a quelli dei propri dipendenti, si tratta di un passaggio fondamentale per poter avanzare spediti sulla via della flessibilizzazione del lavoro e delle masse. Non è bastato, dunque, lo scudo fiscale concesso dal IV governo Berlusconi quale regalo e premio alla grande evasione, dalla mafia agli speculatori finanziari, da una certa Confindustria ai trafficanti di droga che muovono centinaia, migliaia di milioni di euro … la distruzione creatrice innescata dalla crisi prevede anche l’attacco al lavoro dipendente e, in ultima analisi, all’Etica stessa, se si concepisce l’Etica come Logos, cioè come razionalità ed equilibrata distribuzione della ricchezza e del potere. Riflettano su questo brutto e insidioso accordo tutti i lavoratori, siamo essi impiegati o operai, autoctoni o migranti, iscritti alla Fiom o non iscritti, aderenti ai sindacati “che hanno tradito” o non aderenti, perché il momento storico è grave e solenne, e fra tre anni – alla scadenza del contratto dei metalmeccanici oggi in via di rinnovo – niente sarà più come prima. Infatti, niente e stato più come prima e i colpi sono piovuti sui lavoratori alle corde uno dopo l’altro.

4) Fase attuale e terminale. Dal 2010 in poi. Arriviamo così, passo dopo passo, agli ultimi anni e alla fase terminale dell’attacco al lavoro che non si è ancora conclusa. In questa fase comprendo anche il 2010 premontiano e prerenziano, anno in cui la crisi strutturale ha proceduto spedita con la de-emancipazione dei lavoratori. Nel periodo precedente, è stato pubblicato e pelosamente pubblicizzato il saggio del “giuslavorista” Ichino (ex pci, poi pd e dal 2013 scelta civica) dal suggestivo titolo I nullafacenti. Perché e come reagire alla più grave ingiustizia della nostra amministrazione pubblica, tratto da una serie di articoli del “giuslavorista” pubblicati nell’estate del 2006 dal corsera. Riporto qualche passaggio degli articoli di Pietro Ichino, perché prepara il terreno e annuncia un attacco all’ultimo santuario del lavoro protetto che oggi – con i blocchi del turn over e delle retribuzioni erogate agli statali (pur con qualche esclusione di comodo) – è appena iniziato: “ci sono, protervi, i nullafacenti: quelli che vengono al lavoro solo quando fa loro comodo, o non ci vengono proprio, perché ne hanno un altro, in nero, molto più redditizio; e quando vengono, lavorano così poco e male che non si può affidar loro nulla di importante. Gli appartenenti a quest’ultima categoria sono, in genere, una piccola minoranza; ma è raro che una struttura pubblica ne sia del tutto priva. Ecco dunque la proposta, “politicamente scorretta” ma niente affatto irragionevole: una nuova legge dispone che, stante la necessità ineludibile di ridurre la spesa pubblica senza ridurre l’efficienza delle strutture, ogni anno per i prossimi tre ciascuna amministrazione potrà licenziare un proprio dipendente ogni cento, individuato da un apposito organismo indipendente di valutazione secondo i due criteri oggettivi del minimo rendimento e della massima inutilità della prestazione lavorativa.” E ancora, per rincarare la dose e cercare di far passare per “redditieri” lavoratori in diversi casi a basso reddito: “Quanto ai nullafacenti, per definizione essi non sono veri lavoratori: sono dei titolari di rendita; la vera ingiustizia è che, nel settore pubblico, essi possano rimanere tali fino alla non meritata pensione.” Il vero messaggio che si è voluto dare alla sgangheratissima opinione pubblica italiana, con ampia risonanza mediatica, è che tutti i dipendenti pubblici, “titolari di rendita” perché stabilizzati e protetti da licenziamenti individuali e collettivi indiscriminati, sono nullafacenti, inutili se non dannosi e fannulloni addirittura più di quelli del settore privato, più facilmente licenziabili (meno di 15 dipendenti). Per quanto riguarda il settore privato, l’attacco all’articolo 18 e alla “illicenziabilità” è continuato fino a oggi, con Emma Marcegaglia ai vertici di confindustria (organica al “renzismo” fin da prima di Renzi), che agli inizi del 2012 ha dichiarato: “Non vogliamo abolire l’articolo 18. Il reintegro deve rimanere in casi discriminatori, ma vogliamo poter licenziare chi non fa bene il proprio lavoro.” E ancora: “Fino a che non si potrà licenziare un fannullone in Italia non si investirà.” [ … ] “Se un’azienda ha problemi economici deve poter cambiare gli assetti occupazionali, ma vogliamo lavorare anche sui licenziamenti disciplinari.” All’epoca, appoggiando fortissimamente il governo del Quisling Monti, Pier Luigi Bersani dell’ABC disse, con evidente sostegno alla Marcegaglia: “se c’è da fare manutenzione all’articolo 18, facciamola.” In barba alla fandonia delle diverse “anime” del pd, in un pd da sempre unito nei fatti contro i lavoratori e privo di anima. Ovvio che i licenziamenti discriminatori, per i quali devono essere previsti i reintegri, rappresenterebbero solo una piccola minoranza del totale (chi oserebbe licenziare a causa della razza o della religione, provocando una catena di reazioni contrarie e “politicamente corrette”?), mentre è relativamente facile dichiarare situazioni di crisi economica aziendale, o di ramo d’azienda, oppure usare subdolamente la “leva” disciplinare per buttare in strada lavoratori anziani e/o a più alto reddito. Se i dipendenti pubblici sono tutti nullafacenti, e contro di loro si dovrebbe agire risolutamente – ci penserà la futura riforma della pubblica amministrazione di Renzi-Madia? – i lavoratori del settore privato sono tutti fannulloni da tenere d’occhio e licenziare sempre più liberamente, entrato in vigore jobs act. L’obiettivo vero è soltanto la più ampia libertà di licenziamento, individuale e collettivo, senza alcun reintegro, in barba agli attuali, elevatissimi livelli di disoccupazione. La flessibilizzazione a trecento sessanta gradi del lavoro stabile in Italia, passa attraverso la riforma della pubblica amministrazione, che sarà sicuramente punitiva, e lo jobs act, o più banalmente “piano lavoro” in lingua italiana (sgradita agli anglofoni renziani). In merito a questa ultima, devastante trovata di Renzi – per portare a compimento il programma della troika e in particolare della bce, in relazione al mercato del lavoro in Italia (lettera del 5 agosto 2011 Trichet-Draghi all’allora governo Berlusconi) – si è espresso con estrema chiarezza il professor Umberto Romagnoli, docente universitario di diritto del lavoro: “Il Jobs Act determina un doppio binario nella gestione dei licenziamenti. I nuovi assunti hanno un trattamento di tutela assai meno efficace rispetto ai colleghi al lavoro da più tempo.” [ … ] “Se il provvedimento (di licenziamento, n.d.s.) è collettivo, si presentano ulteriori complicazioni a livello pratico. Tra i vari licenziati, bisognerebbe distinguere tra quelli assunti prima e quelli assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act e agire in modo diverso.” [ … ] “Siamo di fronte a un trattamento diversificato che è discrezionale, immotivato, non ragionevole. Sono situazioni identiche trattate in maniera disuguale. Questa riforma aumenta le divisioni tra i lavoratori.” In barba alle tanto decantate tutele crescenti. Discriminazioni fra gruppi di lavoratori, incostituzionalità della norma, monetizzazione (a ribasso) del diritto alla continuità del rapporto di lavoro, sono tutte caratteristiche del jobs act renziano, secondo il parere del professor Romagnoli, un raro caso di “giuslavorista” onesto e franco. Al capo opposto si situa Pietro Ichino, che ha agito, come Marco Biagi, con ferale determinazione contro i lavoratori e i loro diritti. Ichino vorrebbe applicare la controriforma elitista-renziana anche al pubblico impiego, ma, a tale proposito, sono insorti l’inconsistente e super-raccomandata Madia alla pubblica amministrazione e semplificazione (“Il Jobs act non si applica ai dipendenti pubblici. E’ sempre stato pensato solo per il lavoro privato.”) e l’ambiguo Poletti, fra una cena e l’altra con pregiudicati e assassini, che occupa il ministero del lavoro e delle politiche sociali (“Se si vuol discutere del lavoro pubblico in Parlamento c’è una legge delega sulla Pubblica Amministrazione.”). Ci ha pensato Renzi a sciogliere temporaneamente il poco amletico dubbio, nella conferenza di fine anno, dichiarando quanto segue: “In Consiglio dei ministri ho proposto io di togliere la norma (sui dipendenti pubblici, n.d.s.) perché non aveva senso inserirla in un provvedimento che parla di altro. Il Jobs act non si occupa di disciplinare i rapporti del pubblico impiego. Le regole del lavoro pubblico le riprenderemo nel ddl Madia. La mia idea è che chi sbaglia nel Pubblico paghi.” Mi pare evidente ciò che si vuole tener nascosto, con una ridda di dichiarazioni contradditorie. I dipendenti pubblici saranno colpiti con una certa durezza, ma forse separatamente dai lavoratori del settore privato, giacché rientrano nella riforma della PA (ddl Madia) e si assumono con concorso (sempre Madia!). Queste incertezze riflettono non poco la cattiva coscienza del pd (tutto, senza distinzioni speciose) e l’”ansia” piddina di mantenere qualche consenso nel settore pubblico, non dando fin da subito l’impressione (drammaticamente vera) di voler licenziare in massa i propri elettori alla prima occasione. Si può far caso al particolare che le “utilissime” spending review del commissario Cottarelli, oggi di nuovo al fondo monetario internazionale, sono finite in ombra, probabilmente perché la via migliore per ridurre i costi della pubblica amministrazione non è agire sugli sprechi (che almeno in parte sono reali), ma direttamente sui dipendenti pubblici. Se prestiamo attenzione ai contenuti del dibattito pubblico in materia, delle mitiche tutele crescenti per gli assunti con il nuovo contratto si parla poco, mentre si parla ad abundantiam di licenziamenti. Non è un caso. Licenziare è la parola d’ordine neoliberista, recepita senza discutere da tutti i governi sottomessi alla triade del male usa-nato-ue e alla troika che funge da braccio operativo, per controllare i semi-stati fantoccio. In prima fila, nell’ultimo triennio, gli esecutivi italiani nominati, “di sinistra-centro” (Letta e poi Renzi) o appoggiati dalla cosiddetta sinistra (a suo tempo Monti, fortissimamente voluto da Bersani). I lavoratori dipendenti, negli ultimi anni, sono stati trattati come delinquenti da colpire – meritandosi perciò gli epiteti di nullafacenti, fannulloni, redditieri scandalosamente privilegiati, assenteisti – onde colpevolizzare preventivamente la vittima destinata al sacrificio, mentre le cosche subpolitiche liberaldemocratiche, in parte significativa provenienti “da sinistra” (ex comuniste, ex socialiste, ex “massimaliste”, ex sinistra dc, eccetera), eseguivano gli ordini dei padroni sopranazionali e trattavano con le organizzazioni criminali e le reti mafiose, per dividersi il bottino. Questa è la realtà senza veli, nuda e cruda, oltre l’inganno mediatico.

Avrei voluto continuare l’analisi in relazione al punto 4, in cui ho cercato di descrivere, nell’essenziale, la fase attuale e terminale di attacco al lavoro. Ad esempio ricordando le vicende della Fiat in questi ultimi anni, il Fabbrica Italia di Marchionne e l’investimento di 20 miliardi in Italia mai realizzato, che avrebbe dovuto creare occupazione. Oppure la contrattazione marchionnista fuori da confindustria (uscita prevista per il 1° gennaio 2012), per mettere i lavoratori in situazioni di ancor maggiore debolezza. Ma la Fiat auto non esiste più e con lei non esiste più l’”auto italiana”, essendoci la straniera Fca al suo posto. Avrei voluto richiamare il recente caso Electrolux con annesso ricatto – taglio draconiano delle paghe o delocalizzazione in Polonia – che rappresenta un ulteriore affondo neocapitalistico contro il lavoro, o ancora alcuni contratti nazionali truffa, sempre più a ribasso per i lavoratori.

Di argomenti e casi specifici da trattare, in questo campo, ce ne sono fin troppi. Ciò che conta veramente è comprendere che da oltre trent’anni è in corso un mutamento sostanziale nei rapporti di forza fra il capitale e il lavoro, in parallelo con il passaggio dal capitalismo produttivo del secondo millennio al nuovo capitalismo finanziario e assoluto di oggi, e che i neodominati global-finanziari, che controllano il governo, le politiche strategiche e la moneta, sono a un passo dalla vittoria. Manca poco, ormai.

 

Fonte: Pauper Class

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